Raccontare,  Viaggiare

E il viaggiar m’è dolce in questo mare.

Ieri pomeriggio ero seduta al posto 32, nella carrozza 3 di un treno che percorreva una metà dell’Italia, quella di giù. Un tracciato che ormai conosco bene, con le stesse fermate, lo stesso orario di partenza, la stessa stazione di arrivo. Lui che mi raggiunge al binario, prende i miei bagagli pesanti, e poi un altro tragitto in auto, fuori dalla città,  attraversando campagne al buio. E poi il lago, lì immobile, e la Casa, con l’aria mossa da una coda bianca. Stesso viaggio, stesso tempo, ma emozioni sempre diverse. Questi paesaggi che attraversavo ieri, hanno visto quasi tutto di me. La gioia di arrivare, il dolore di ripartire, la paura di tornare, la tristezza di ripartire, l’attesa di ritornare, la sosta per ripartire di nuovo. Ma anche le domande, la sorpresa, le parole pensate, quelle dette e quelle scritte, infinite, conservate sulla memoria di un telefono, unico mezzo per non tagliare il filo. Unico appiglio per vivere la distanza. Triste, unico appiglio. E unghie che vi si aggrappano. E punteggiature che a volte non aiutano a capirsi, nella nebbia aggrovigliata della distanza. Che si sa, basterebbe così poco per pettinare i pensieri, un po’ di sole, un po’ di vento, due occhi, un tempo che non si deve contare alla rovescia. Forse sono una pendolare. Forse sono solo un pendolo, in un moto infinito da qui a lì, che mantiene il tempo perché non finisca. Un pendolo che spera di fermarsi in un lì, da qualche parte, in qualche tempo.

L’altro ieri sono stata da mia Madre, le ho detto “Domani parto, questa volta resto fuori dieci giorni“. Glielo dicevo pensando che ogni volta ci saranno giorni da aggiungere. E allora le ho detto “Madre, non passerà molto tempo che me ne andrò via da qui, non riesco più a identificarmi con questo luogo, non ci respiro più bene qui, dove la mediocrità si veste a festa e gira per le strade
E la famiglia, il lavoro?
La famiglia ha già le sue strade che vanno in direzioni diverse, ha la sua vita, la famiglia. Ci ritroviamo nel cuore e a Natale.  Non voglio più pensare di essere indispensabile
Si, ma il lavoro?
Troverò una soluzione. Meno ho, meglio è
E ti ricordi proprio a 52 anni?
E ti ricordi che ne ho festeggiati 25?
Dire a Madre di voler andare via è un po’ come darsi il permesso di preparare la valigia per compiere anche questo altro viaggio. Per dove? Altrove, sicuramente. Che poi lo sto dicendo a tutti, come quando dico che sono innamorata. Con la stessa urgenza di mettere le cose al loro posto in questo universo.

Ieri mattina sono entrata in un negozio e l’ho vista. L’ho presa, sono entrata in camerino e l’ho indossata. Una cerata impermeabile, bianca. Quando il mio corpo è entrato dentro quel bianco, subito ho sentito la pioggia della Bretagna su di me, il vento di un isola nel mare d’Irlanda, gli schizzi delle onde sugli scogli sotto quel faro alla fine del promontorio. Ancora un viaggio. Io, una cerata non l’ho mai avuta e nemmeno mai desiderata, in verità. A che cosa mi sarebbe servita nel luogo in cui pensavo che avrei vissuto per sempre, così pieno di sole? Ma infilare il corpo lì dentro è stato come entrare in un portale aperto verso le possibilità dell’acqua. Acqua di mare, di lago, di pioggia. Acqua che pulisce, che benedice, che leviga le pietre. L’ho comprata e portata con me, che stasera piove, lì dove sto andando.

Mentre sto per arrivare, leggo l’ultimo libro di Christian Bobin. Ha un veloce segno in copertina, azzurro come il colore trovato in quella di un altro libro letto di recente. Lì si raccontava di legami ed eredità da sciogliere attraverso le generazioni, qui si parla della “sorella della vita, la morte“. Non è anche questo un viaggio? E mi viene in mente il mio attraverso le vite passate, e poi l’ipnosi, e ancora Anna e la sua vita e morte dentro i vicoli di Marsiglia. E tutto questo mio preparare la strada al mio andare via, lo scrivere su un quaderno tutte le cose da sistemare prima, per non lasciare nulla in sospeso o di irrisolto, l’assenza che diventa sempre più lunga, il dirlo agli affetti, quasi come se fosse un saluto, la voglia di tagliare le radici e il desiderio di non radicarle più da nessuna parte, che tanto il nutrimento viene da un’altra parte, dal cielo e non più dalla terra. Tutto questo, a volte, mi sembra così simile ad un estremo saluto. Ma no, non lo è. È solo l’ennesimo passaggio. L’ennesimo trapasso. L’ennesima morte prima della nuova vita.

Forse moriamo solo quando abbiamo concluso qualcosa, come il giardiniere che ripone i suoi attrezzi nel capanno del giardino. Forse il tempo della nostra vita è il tempo di un lavoro…ciascuno di noi ha qualcosa da portare a termine e, finché non lo si è concluso, rimaniamo così. Siamo al lavoro anche se apparentemente non facciamo nulla“*.
Che cosa dovrò concludere ancora non lo so. Spero di non essere da sola nel farlo. Spero di essere con chi penso e desidero.
E se non ci riesco in questa vita, c’è sempre la prossima.

Quando sono arrivata non pioveva più. E se poi dovesse ricominciare, ho con me la cerata bianca.

 

*(C.Bobin, Un azzurro che non mente più, Anima Mundi, 2021)

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