Viaggiare

Acini&dolcini

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L’altro giorno mi chiama Dino e mi dice “Vieni da noi a San Marco Argentano, stiamo vendemmiando“. Ovvio che dico di si e, avendo fatto un po’ di rumore sui social, come è mia abitudine, conquisto anche un invito per caffè, dolcini e vino da Antonietta a Roggiano Gravina. Assemblo l’equipaggio di parenti (andate a leggere il post precedente, Fallimenti) e si parte verso la provincia di Cosenza. Ovviamente, guido io.

Attraversiamo le Calabrie e ci scopriamo ad osservare i paesaggi sempre diversi, alcuni più puri di altri, alcuni in cerca di identità, altri prepotenti, altri ancora di una dolcezza che non ti aspetti da questa terra così arcaica ed essenziale.

Arriviamo alla cantina di l’Acino Vini dove ci sta aspettando Dino Briglio con in mano un bicchiere di Mantonicoz appena spremuto e spillato: è un succo d’uva mantonico pinto, è giallo e profumato e già ti mette in guardia su ciò che diventerà. Come quando vedi quelle ragazzine che sono ancora un po’ bambine ma che hanno dentro la donna che saranno. Non siamo soli, ci sono altri ospiti in cantina: parliamo, beviamo, ci raccontiamo chi siamo e cosa facciamo lì in quel giorno. Siamo circondati da ulivi carichi e da un silenzio che fa bene a noi, cittadini con la passione di andare per campagne.

Dino è sornione, soddisfatto, è sorridente come lo sono Antonello Canonico e Daniela che continuano a lavorare in cantina: il vino è una cosa seria e non ammette trastulli e chiacchiere. L’aria è profumata di zuccheri e di frutta. Guardo i miei compagni di viaggio e li vedo felici.

Arriva il pranzo  e ci beviamo su una bottiglia di Chora rosso (magliocco, guarnaccia e greco nero), e ne dobbiamo aprire subito un’altra, perché è così buono che una non basta.

Nel frattempo Antonello, sparito da un po’, ritorna con 25 quintali circa di magliocco da lavorare subito: “ragazzi, ci date una mano?“.  Mi chiedo come abbia fatto a capire che non aspettavamo altro, forse ce l’avevamo scritto negli occhi. Ancora una volta diciamo “Si”. Finalmente le nostre mani possono essere impiegate in altro modo: possiamo creare.
Domenico e Fabrizio scelgono la postazione al furgone: scaricano le cassette di uva nella diraspatrice. Sono a torso nudo, faticano ma si divertono un mondo e la sfida è tenere il ritmo della macchina: i quintali non sono bruscolini.
Daniela dice “Qualcuno deve stare a togliere i raspi con il forcone“, intuisco che si tratta di un compito di alto livello e mi lancio volontaria. In realtà è una banalissima operazione ripetitiva e meccanica, mi prendono in giro perché ci sono cascata come una pivella…ma, caspita, ho un forcone in mano!!! La Federica, la lasciamo alla macchina fotografica…
Il lavoro procede a ritmo serrato, la catena non si ferma, ognuno è al suo posto. E’ bellissimo. Quei grappoli di magliocco, con gli acini stretti stretti come le dita a formare un pugno, domani saranno un vino rosato e io so che lì dentro ci saranno anche le mie mani che stringevano il forcone. Tutto questo mi fa stare bene.

Durante la giornata che passa, in attesa di un altro carico di magliocco, ognuno ritrova il tempo di fare ciò che sente: i Canale suonano il loro Blues, seduti su un tronco, Federica raccoglie le olive dall’albero, io mi stendo sotto un ulivo a riempirmi i capelli di foglie e di insetti. E a riempire le orecchie di silenzi. Penso che queste giornate lente dovremmo regalarcele più spesso, penso che dovremmo essere più buoni con noi stessi, penso che sono fortunata perché ho il tempo di prendermi tempo.

12195940_10207725300840849_7554450764424897581_nDino mi racconta che “L’azienda nasce nel 2006 perché ritenevamo che i vini che si producevano in Calabria e nella provincia di Cosenza non fossero all’altezza della bellezza di questi posti. Qui, invece, ci sono tutte le caratteristiche, climatiche, di terreno, paesaggistiche,  affinché questi luoghi producano grandi uve per grandi vini”. Anche per lui esistono le Calabrie che, tuttavia, non si conoscono “Noi veicoliamo solo qualche posto sul mare, solo qualche episodio di cronaca nera, ma basta osservare la cartina geografica per accorgersi che tutta la regione, o quasi, è fatta da alta collina e montagna. La nostra vigna ha quasi il 40% di pendenza, era stata abbandonata perché difficile da lavorare, ma noi l’abbiamo ripresa”.  Sono tre i soci, nessuno è vignaiolo di formazione (uno storico, un regista e un avvocato), e dopo uno stage in una cantina nel Cilento e dopo aver guardato le colline intorno a San Marco Argentano hanno capito che la vera sfida per loro doveva essere tirare fuori il vino da quella terra percorrendo la strada del “vino naturale: vini diversi e vini che potevano esprimere l’anima del nostro territorio”. Ovvero quello che oggi si dice il “terroir”, e ci si sente così fighi a dirlo.

Qualche minuto di strada, sotto una pioggia battente, e arriviamo a Roggiano Gravina: i Tibaldi ci stanno aspettando! Anche se dovrei dire i Bufano, visto che Tibaldi è il cognome di Antonietta, con Francesco, Martina e Alessio. Li adoro: sono sorridenti, sono accoglienti, sono di una ospitalità disarmante, sono una famiglia unita. E sono tutti molto più alti di me, tanto che per la foto di gruppo, loro sono rimasti in piedi e io seduta su uno sgabello. Quando li vedi senti che potresti passare del tempo con loro e che sicuramente sarà un bel tempo.

12122591_10207725369722571_545383509580963174_nCi aspettano per la degustazione di due annate (2012 e 2013) del loro vino, il Don Michele, accompagnato da un ottimo formaggio locale in due stagionature (18 e 22 mesi).  Mi raccontano che tutta la famiglia lavora in vigna: potano, preparano il terreno, raccolgono e soprattutto praticano un’agricoltura biologica e tradizionale. La stessa che ha praticato, dalla fine degli anni ’60, Michele Tibaldi, il padre di Antonietta, che portava l’uva alla Cantina Sociale. Grazie alla collaborazione con L’Acino Vini, Antonietta e Francesco possono concretizzare un sogno che avevano messo a riposo per un po’ nel cassetto “C’e stato un periodo, dopo la chiusura della Cantina Sociale, che l’uva la vendevamo ai privati, a volte la svendevo proprio perché mi dispiaceva vederla sulla pianta. E finalmente un giorno, nel 2010, abbiamo pensato che potevamo iniziare a imbottigliare il nostro vino”.  L’etichetta, essenziale, ci racconta la storia di questo sogno: una locomotiva a vapore e queste parole  “Questo è un invito al viaggio, un’avventura vinicola che è iniziata con Michele Tibaldi, ferroviere e vignaiolo, che girò il mondo con i treni per ritrovarsi nella vigna, la stessa da cui, ancora oggi, produciamo questo vino”. Francesco inizia a stappare il 2012 e ci spiega che ha sempre detto “che il vino si sarebbe dovuto chiamare Don Michele, perché la vigna che curiamo oggi è nata con lui. L’annata 2011, poi, segna un momento particolare, è il nostro inizio e cade 11 anni dopo la morte del padre di Antonietta. Volutamente abbiamo scelto di farlo sostare in barriques per 11 mesi”. Il vino che beviamo è un Magliocco dolce in purezza, è naturale, non filtrato, senza aggiunta di lieviti esterni e con un affinamento in legno di 18 mesi. E quei mesi in più fanno la differenza rispetto al 2011: il vino non aggredisce, non aggrappa, ma si svolge con armonia in bocca richiamando frutta rossa matura e sentori speziati. Proviamo anche il 2013 che non sentiamo ancora perfettamente pronto e concludiamo il pomeriggio con dolcini e caffè.

Mi giro a guardare il mio equipaggio e li vedo sempre più felici per questa giornata che sta per finire. Salutiamo i nostri meravigliosi quattro ospiti e ce ne ritorniamo a casa con le mani piene di regali, tra cui un vassoio di dolcini che ci terranno compagnia ancora un po’ di giorni, la mattina, a colazione.

Qui le foto della nostra fotografa ufficiale, Federica Uccellini

Qui le foto cialtrone fatte da me

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