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Al di qua del mare. Le torri costiere della Costa Viola – In viaggio con Barlaam – n. 4/2015

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Al di qua del mare. Le torri costiere della Costa Viola*

Allarmi all’armi: la campana sona / li Turchi su calati alla marina. / Chi havi scarpi rutti si li sola / ca io mi li sulavi stamatina”.

Il ricordo delle incursioni turche e barbaresche che arrivavano dal mare è sempre rimasto vivo nella nostra storia e ha spesso condizionato il rapporto con il mare delle popolazioni che si sono insediate in prossimità delle coste. Il Mare Mediterraneo, che bagnando l’estrema punta della Calabria va ad incontrare le acque del Tirreno e dello Jonio, è stato, nei secoli, strumento di opportunità di scambi e di contatti commerciali, grande via di comunicazione, ma soprattutto fonte di preoccupazione e di distruzione. Dal mare arrivavano i pirati, arrivavano i corsari, i turchi, i saraceni, gli infedeli insomma che, veloci e spietati, facevano incetta di uomini da ridurre in schiavitù e da utilizzare come rematori, di viveri di cui fare scorta, dell’acqua preziosissima per le lunghe navigazioni, di donne da rinchiudere negli harem. Le coste calabresi e siciliane, ma anche quelle più meridionali della Puglia, furono esposte, dal XVI secolo, ad attacchi sistematici di turchi e barbareschi che sconvolgevano la quotidianità delle popolazioni locali che, al semplice sospetto e timore di un attacco, venivano messe in allarme e costrette ad abbandonare case e averi con la speranza di farvi ritorno al più presto. Personaggi come Khayr al-Din, detto Barbarossa per il colore della lunga barba, Dragut, Cicala, Occhialì, raggiungevano velocemente e con relativa facilità, con le loro imbarcazioni, le coste della Calabria, sfruttando il favore della notte o delle prime luci dell’alba, cercando di cogliere di sorpresa gli abitanti. Esistono, tuttavia, non solo storie di terrore ma anche di “conversione al regno degli infedeli” da parte dei calabresi che, imbarcandosi clandestinamente sui vascelli corsari, lasciavano la patria e tentavano la fortuna in quei luoghi così lontani ma che venivano visti come la terra della prosperità e dell’abbondanza, tanto che a Costantinopoli esisteva un grosso casale di rinnegati chiamato “Calabria nuova”.

Si imponeva, dunque, la necessità di un capillare sistema territoriale che avesse, al tempo stesso, funzione difensiva e di segnalazione. Non solo castelli fortificati dunque, ma presidi puntuali da realizzarsi in quei luoghi che permettevano un efficace controllo visivo di ampie porzioni di mare e degli approdi: nei pressi delle insenature, dove potevano nascondersi le imbarcazioni nemiche, e alle foci dei fiumi. Nasce così il sistema delle torri costiere di avvistamento che occupa, come una catena ininterrotta, le coste calabresi tirreniche e ioniche interessando anche la Costa Viola con i presidi ancora esistenti, seppur in diverso stato di conservazione, di Torre Cavallo, Torre Rocchi o di Bagnara e Torre di Pietrenere.

Le diverse Case Reali che hanno governato sul Regno di Napoli hanno sempre avvertito la necessità stringente di avviare, o potenziare in alcuni casi, questo sistema periferico di controllo, a partire dagli Angioini che iniziarono a munire il territorio di presidi fortificati contro nemici e pirati utilizzando la tipologia di torri a corpo cilindrico slanciato su base troncoconica, con cordolo di demarcazione e coronamento sommitale, riconoscibile in gran parte delle strutture che sono arrivate fino a noi, comprese quelle che insistono sulla Costa Viola. Si legge infatti che Carlo I, già nel 1284, intimava “che gli uomini di guardia siano attenti a sollecitamente avvertire l’avvicinarsi al lido delle navi nemiche e dei ribelli col segno del fumo di giorno e del fuoco di notte e nel modo consueto di indicare il numero delle navi”. L’allarme, infatti, partiva dalle torri con questo sistema visivo di segnalazione, che alcuni definiscono “telegrafo a fumo”, con segni e dispacci codificati, e si diffondeva velocemente di torre in torre fino ad arrivare a Napoli. Le torri erano dotate di un organico fisso di uomini dalla primavera all’autunno, nel periodo in cui erano più probabili e frequenti gli attacchi dal mare. Vi era il Castellano, o Torriere, che aveva autorità non solo sui suoi uomini ma anche su una parte di territorio costiero, il distretto, era responsabile dell’approvvigionamento dei viveri e dei rifornimenti e della manutenzione della torre. Accanto a lui c’erano i guardiani con il compito di accendere il fuoco in caso di allarme e i cavallari, gli uomini a cavallo che mantenevano i rapporti tra una torre e l’altra vicina, pattugliavano le coste e avvisavano gli abitanti delle zone più interne dell’eventuale pericolo. Gli Aragonesi, poi, proseguirono nell’opera di potenziamento con un programma di ristrutturazioni e di nuove edificazioni dei Castelli calabresi, in particolare di quelli marittimi, anche con lo scopo di mantenere l’ordine interno del Regno. La sistematizzazione del complesso di fortificazioni avvenne, però, nell’epoca del Viceregno con Don Pedro de Toledo prima (1538) e poi con l’editto di Parafran de Ribera (1563). Per le nuove edificazioni venne scelta la tipologia delle torri quadrangolari perché ritenute più efficaci per il posizionamento dei cannoni e per la possibilità di far fuoco in tutte le direzioni. La realtà delle realizzazioni non rispettò però il programma ambizioso anche per una serie di difficoltà economiche e tecniche: le torri quadrangolari richiedevano più costi di edificazione e maggiori competenze tecniche rispetto alle svelte torri cilindriche. Per recuperare le risorse economiche il governo aveva tassato le Università nei cui territori ricadevano le torri in progetto, suscitando numerose lamentele e scarsa collaborazione dalle stesse che ritenevano di non dover, esse sole, contribuire alla costruzione dei nuovi edifici o alle ristrutturazioni degli esistenti in quanto rientravano in una esigenza difensiva di tutto il Regno. Una ricognizione sulle coste calabresi, ma anche sull’estrema punta pugliese, mette in evidenza, del resto, come siano davvero poche le torri quadrangolari del XVI secolo mentre siano in prevalenza quelle a pianta circolare dei secoli precedenti che venivano costantemente mantenute per la loro importanza strategica. Con la riduzione degli attacchi via mare molte delle torri iniziarono a perdere di importanza, poiché veniva meno il loro ruolo di sentinelle, e dunque alcune caddero in rovina per la mancanza di manutenzione costante, altre, nella seconda metà del XIX secolo, vennero poste in vendita. Nel caso delle torri della Costa Viola si segnala l’uso alternativo delle stesse come punto privilegiato di avvistamento per la caccia al pescespada.

La Torre Cavallo (XIV secolo) non è di facile accessibilità, anche per via del fatto che è di proprietà privata. Ha base troncoconica a scarpa, cordolo in pietra e corpo cilindrico crollato per circa la metà. Alla base si appoggia, sul lato sud, un muraglione che faceva parte di una struttura difensiva di fine XVIII inizio XIX secolo da mettere in relazione al periodo murattiano. Gioacchino Murat scriveva infatti all’imperatore che una volta fortificata la costa da Torre Cavallo a Punta Pezzo (nel comune di Villa San Giovanni) si sarebbe garantita la sicurezza della navigazione lungo le acque prospicienti. La scelta, anche in epoca posteriore, di questo luogo per realizzare un sistema fortificato ne conferma la posizione strategica di controllo sull’ingresso nord dello Stretto di Messina.

La Torre di Capo Rocchi (XIV secolo), ha base troncoconica a scarpa, cordolo in pietra e corpo cilindrico, della merlatura sommitale sono rimasti pochi avanzi, la porta di ingresso è posta, come di consueto sul lato a monte a maggior protezione della stessa. È oggi inserita come punto di belvedere e di cerniera tra il Lungomare e il porticciolo turistico di Bagnara.

La Torre di Pietrenere (XIV secolo), o Pietre Negre, si trova sul promontorio di Taureana, oggi inserita nel percorso di visita del Parco Archeologico dei Tauriani “A. De Salvo”, in discreto stato di conservazione. Ha base troncoconica, cordolo in pietra e corpo cilindrico con merlatura sommitale quasi interamente conservata. L’ingresso è posto sul lato a monte, oggi risolto con una scala a chiocciola in ferro, ma chiuso al pubblico. La torre era in contatto visivo verso sud con la Torre di San Francesco, da individuarsi in località “Torre” a Palmi, che ospita oggi un belvedere, probabilmente realizzato sui resti dell’edificio a pianta circolare, e verso nord con la Torre di Gioia, che non è stata identificata con sicurezza anche se esiste un toponimo “Torre” tra il fiume Budello e la strada per Marina di Gioia.

Le nostre torri, poste al di qua del mare, rappresentano un prezioso patrimonio culturale diffuso che testimonia di un lungo periodo della nostra storia, anche problematico e che ha lasciato il segno soprattutto nelle modalità di insediamento nei luoghi esplicandosi, ad esempio, con la scelta di non urbanizzare le marine, e che può diventare oggi, un segno caratterizzante e identitario di molti paesaggi costieri calabresi, come nel caso della Costa Viola in cui, gli snelli presidi, si inseriscono a pieno titolo nella magia e suggestione del paesaggio.

A questo link è possibile leggere la rivista completa in formato digitale
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*Pubblicato in “In viaggio con Barlaam”, rivista trimestrale del GalBatir (Basso Tirreno Reggino), n.4 (2015), Rubbettino Editore.

 

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